Le pupille sbucavano dalle orbite gonfie e uno sguardo acuto, determinato raccontava una sofferenza così intima, profonda da distogliere ogni attenzione dal volto tumefatto. Certo la visione del collo letteralmente squarciato dal tumore in stadio avanzato era davvero impressionante.
Così ho conosciuto Devanand. Il nome è di fantasia e non conosco la sua storia. Aveva 50 anni. Non sembrava bengalese; i suoi tratti e il colore della pelle richiamavano piuttosto una qualche parentela europea. Si capiva che aveva ricevuto una buona educazione e comprendeva molto bene l’inglese. Di carattere deciso, sembrava abituato a dirigere; mi sono fatto l’idea fosse stato un sarto perché con dita esperte controllava le cuciture e la qualità del tessuto delle kurta che indossavo.
L’hanno raccolto a casa, dove giaceva abbandonato dai parenti che non potevano prendersi cura di lui. In ospedale avevano sentenziato che non c’era nulla da fare e così, accompagnato da dozzine di larve di mosca che rischiavano di soffocarlo, è arrivato a Nirmal Hriday.
É stato lavato, rivestito con panni freschi di bucato ed è stato medicato con delicatezza per rimuovere quanto più possibile le larve, disinfettare la fistola. Gli sono stati somministrati potenti analgesici per sedare il dolore e lenire la sua sofferenza. Con maestria la Sister gli ha messo un sondino gastrico e, finalmente, Devanand ha potuto bere e mangiare.
Gli è stato assegnato il letto con le sbarre e con il materassino anti-piaghe da decubito. Devanand trascorreva la maggior parte del tempo in ginocchio, in posizione antalgica, cercando di dormire o, per lo meno, di rimanere assopito il più a lungo possibile.
Veniva medicato ogni giorno, per ultimo, così da potergli dedicare tutto il tempo necessario senza fretta. La medicazione di Devanand era diventata presto un rito ben preciso, svolto nella penombra alla luce delle torce perché l’illuminazione diretta gli dava fastidio. Solo garze di qualità, che non si sfilacciassero, per pulire con delicatezza le piaghe e, imbevute di disinfettante, riempire la fistola. Otto cerotti 10x4 cm per creare una sorta parete elastica sottomandibolare adesa alla nuca. Quando tutto era finito, Devanand indossava la mascherina azzurra che ridonava una parvenza accettabile al suo volto. Congiungeva le mani in segno di ringraziamento e poi andava a ricevere il suo pranzo liquido con le prelibatezze frullate dalla volontaria giapponese.
Veniva medicato ogni giorno, per ultimo, così da potergli dedicare tutto il tempo necessario senza fretta. La medicazione di Devanand era diventata presto un rito ben preciso, svolto nella penombra alla luce delle torce perché l’illuminazione diretta gli dava fastidio. Solo garze di qualità, che non si sfilacciassero, per pulire con delicatezza le piaghe e, imbevute di disinfettante, riempire la fistola. Otto cerotti 10x4 cm per creare una sorta parete elastica sottomandibolare adesa alla nuca. Quando tutto era finito, Devanand indossava la mascherina azzurra che ridonava una parvenza accettabile al suo volto. Congiungeva le mani in segno di ringraziamento e poi andava a ricevere il suo pranzo liquido con le prelibatezze frullate dalla volontaria giapponese.
Devanand sopportava con dignità l’umiliazione del suo stato. Perdeva la pazienza solo quando il dolore era insopportabile e l’analgesico tardava.
Devanand era cattolico. Nell’intimità, Devanand si rivolgeva a Cristo portando l’indice dal petto in alto verso il Crocefisso che proteggeva il suo letto e chiudendo le palpebre.
Ho visto le sue lacrime brillare durante la consacrazione e il suo sguardo illuminarsi di vita quando il sacerdote si avvicinava per accoglierlo simbolicamente alla mensa eucaristica.
Devanand riceveva frequenti visite: quando era sveglio era spesso circondato dalle Sister e dai volontari. Qualcuno trascorreva tutto il tempo con lui, tenendogli la mano a fianco del letto o “scarrozzinandolo” in giro per il piano.
Ottenere un sorriso era difficile, ma unico. E così ricordo il suo sguardo, sorridente, quasi gioioso, quando sono andato a salutarlo e ha adagiato il palmo della sua mano sul mio capo.
Ottenere un sorriso era difficile, ma unico. E così ricordo il suo sguardo, sorridente, quasi gioioso, quando sono andato a salutarlo e ha adagiato il palmo della sua mano sul mio capo.
Gli occhi di Devanand si sono chiusi alla luce di questo mondo all’alba del primo giorno del mese. Sua madre e suo fratello erano al suo capezzale. Mi piace immaginare abbia sorriso.
Non ho potuto tenere questa storia chiusa nel mio scrigno personale perché mi sono convinto della necessità di dare testimonianza e modo a chiunque lo desideri di dare un volto preciso “ai più poveri fra i poveri” e comprendere quanto sia attuale la missione che quotidianamente, comunque e nonostante, si svolge a Nirmal Hriday, fondato da Madre Teresa di Calcutta nel 1952: accogliere nell’Amore e offrire dignità alla sofferenza e alla morte. Forse per questo è così difficile lasciare Nirmal Hriday.
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