Pomeriggio. Disteso in branda tento di raccogliere i pensieri mentre ascolto musica. Incominciamo dalla notizia più recente, l’arrivo di due giovani americani. Così siamo in sei nel dormitorio numero 9. Al completo. Solo una settimana fa questo mi avrebbe regalato un momento (o una crisi?) d’ansia. In realtà spero di essermi abituato abbastanza bene alla convivenza. I due compagni inglesi hanno stabilito regole chiare per l’abbigliamento da camera: mutanda anche abbassata in vita. Tornando indietro di venticinque anni, mi ricorda la caserma di Firenze.
Proseguendo nelle riflessioni personali, a Nirmal Hriday sto cercando di vivere, di far mia l’offerta di un servizio dedicato agli altri, rinunciando e rifuggendo da ogni compiacenza personale. Salutare con un sorriso tutti i pazienti di cui incontri gli sguardi, anche quelli con cui non hai niente a che fare o che non ti stanno particolarmente simpatici. Medicare non solo le piaghe ma comprendere e partecipare al dolore, alla paura, alla rabbia di chi soffre. Penso sia importante stabilire un legame empatico, ascoltando e offrendo il massimo rispetto al dolore, cercando di farne capire la necessità. Ieri un giovane ragazzo (venti, venticinque anni non di più), probabilmente con un deficit mentale, che medico per una ferita al piede e che talora è difficile da controllare perché reagisce con forza al dolore, ieri quando mi son o seduto accanto a lui per salutarlo mi ha abbracciato e si è accoccolato a me. Siamo stati così per qualche tempo, come fratelli, come fosse mio figlio. Comprendo oggi con chiarezza che questa gente chiede in primo luogo rispetto e attenzione amorevole. Certo, sembra ovvio, scontato ma nella pratica quotidiana non sempre riesce a essere la prima (e unica?) ragione del servizio. Ricordo la scorsa volta, quando ero più preoccupato degli aspetti corporali e talora andavo spiccio (non fa poi così tanto male, è per il tuo bene e mi mancano ancora tante medicazioni). La domanda è “Che cosa posso fare per te, fratello?”. Se hai innanzitutto bisogno che io ascolti il tuo lamento in bengali, io ti ascolterò con attenzione prima di ogni cosa e cercherò di dimostrarti che comprendo la tua sofferenza fisica e soprattutto il tuo sconforto morale per quel tuo piede dove la gangrena si è portata via la pelle lasciandoti la carne viva che brucia. E devo cercare di convincerti che quella carne viva non ti deve spaventare: è un buon segno; se saremo capaci di evitare infezioni pulendola e disinfettandola ogni giorno, se tu sopporterai, se tu mangerai con vigore e non ti lascerai andare, se tu vorrai continuare a vivere con i mesi guarirai e potrai tornare a camminare con le stampelle o faremo di tutto per darti una carrozzella. Penso ai nostri ospedali attrezzati e iperspecializzati dove molto (troppo) spesso il paziente deve subire una vera e propria trasformazione da essere umano, unico e irriproducibile, in una sequenza ordinata di organi potenzialmente trapiantabili. E allora caro Jodu, siccome qui non sei davvero in un ospedale, è giusto che tu abbia diritto a essere considerato per il tuo essere uomo sofferente prima che un piede da medicare.
sabato 6 febbraio 2010
Sabato pomeriggio
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento